Uragano di morte

Non scelse mai. Cosa poi c’era da scegliere, lei proprio non lo sapeva.
Una strada pavimentata, una bella strada ricca di monumenti, rigogliosi alberi e fontane zampillanti.
Questo era. O almeno, questo appariva agli occhi di coloro che sceglievano.
Di fronte ai suoi dolci occhi si stagliava lava infuocata, montagne scoscese e temporali.
Un uragano si preparava a scatenare la sua furia.
Il corpo di lei tremava, le spalle infreddolite e la schiena percorsa da lunghi brividi.
Le sue forze iniziavano a scemare, l’abitudine iniziava a pesare e si accumulava su quei fianchi che avevano accolto più e più sessi.
La penetrazione diventava dolorosa, assieme al membro entravano le preoccupazioni altrui, i dolori altrui che si andavano a sommare ai suoi in quel lento orgasmo che le rapiva il cuore.
I capezzoli turgidi bagnati dalla pioggia. Gli occhi che riflettevano le nuvole che sempre più velocemente andavano accumulandosi laggiù all’orizzonte.
Quell’uomo straniero, dal forte accento, che le diceva di girarsi spazientito.
Ogni volta che entrava dentro di lei, prima lentamente poi sempre più forte, nuovi pensieri le affollavano la mente, riempendola di nuova solitudine.
Un velo scese sui suoi occhi, un velo ne congeló per sempre lo sguardo, lasciandola incapace di provare emozione alcuna.
E poi ci fu il nulla.
Cadde, cadde col suo corpo di bambina tra le braccia dello straniero dal forte accento, cadde a terra.
L’uragano la colpì, la pioggia l’aveva ormai bagnata tutta, i capelli che si appiccicavano al viso, le ciglia umide, il naso che colava.
Il suo sesso rimase scoperto, e su di esso si scatenarono tutte le furie.
Prima sul clitoride e poi più in basso, sulle grandi labbra, l’uragano si muoveva e lasciava solo distruzione dietro di sé.
Moriva ogni desiderio, moriva ogni speranza, moriva ogni barlume di scelta, morivano i rigogliosi alberi, le loro foglie si seccavano e diventavano nere, moriva l’acqua, prosciugata dalla sete altrui di scegliere, moriva il cemento, spaccato a metà, lacerato dalla lava infuocata.

Un freddo destino

Domani sera tornerà a casa.
Dopo un mese, ripercorrerà nuovamente le stradine circondate da lunghi ed immensi campi di grano, vedrà il gelo sulle foglie arancioni degli alberi e un tramonto lontano illuminerà la sua strada.
Voleva scriverti, voleva rivederti: chissà come mai, chissà che scherzo è questo, ma nei momenti difficili cerca te. Un messaggio, un sorriso o semplicemente un abbraccio. Stupido da parte sua cercare rifugio nel passato, cercare consolazioni che non trova e non può avere.
E per un attimo la tua immagine scalda il suo cuore e lo rasserena. Poi un altro pensiero invade la sua mente e passa oltre, assorbita dalla quotidianità di questo presente incessante e di questo futuro sfuggente.
Forse nei suoi occhi ancora ci sei, o forse è un ricordo lontano. I tuoi occhi, i tratti del tuo viso, gli zigomi e i capelli, non pensa nemmeno di ricordarseli così bene come vorrebbe.
Ma del passato cosa rimane se non un dolce pensiero, piccole rimembranze che avvolgono il cuore e che non ci è concesso rivivere.
Ed è quando sorge il sole, quando il gatto si stiracchia e si desta dal suo giaciglio, quando l’anziano s’appresta a comprare il pane, quando l’operaio si dirige a svolgere la sua mansione, è allora, che si dimentica di te e la sua mente si concentra su altre faccende, indaffarata e stanca.
Sei una piccola parentesi, sei il sole che tramonta sui pensieri e con i suoi ultimi raggi riscalda gli animi prima di lasciare spazio all’argentea luna alla quale i lupi rivolgono le loro preghiere, inarrivabile e splendente, bianca come il latte versato da un bambino maldestro.
Un freddo destino.

Lui

Vide una donna, in lontananza, scrutare l’orizzonte dal piccolo balconcino della sua stanza d’albergo.
Non riuscì a vedere il suo viso, ma qualcosa colpì subito la sua attenzione: quel velo bianco che le circondava il capo, lasciando scoperto solo il viso e quella tunica blu, forse ricamata, forse, non avrebbe saputo dire con esattezza.
Dopo qualche attimo comparve una seconda donna; era identica alla prima, velo bianco e tunica blu.
Fece una strana impressione vederle lì, insieme, venute da chissà dove, sulle spalle chissà quali esperienze, quali felicità e quali dolori.
Poi arrivò Lui.
Con sapienza iniziò a disegnare cerchi nel vuoto, faceva vedere, spiegava cose alle due donne.
Non ne scorgeva il volto, i tratti somatici o lo sguardo, ma percepiva qualcosa.
Riusciva come ad immedesimarsi in quel particolare quadretto, riusciva a capire, forse, quella bizzarra situazione che prendeva spazio di fronte a lei.
Lui che dettava, lui che diceva, lui che sapeva.
Loro che annuivano, loro che forse sorridevano, loro col capo un poco chino.
Attenta, vigile, osservava.

Madrid II

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In aereo, ieri sera, guardando le luci che scorrevano frettolosamente sotto di me, ho finalmente capito: odio tornare da un viaggio, odio stare seduta mentre vengo trasportata, odio chiedermi quanto manca. Odio tutto questo semplicemente perché mai niente mi ha fatto sperare di tornare.
Mai niente mi ha tenuta ancorata ad un posto, mai niente mi ha fatto chiamare un posto casa.
Errante.
Un viaggio come una fuga, un viaggio come un nuovo luogo dove vivere e dove coltivare qualche ricordo. Un viaggio come un eterno attimo che mi ricorda che siamo mortali.
Un ritorno triste e banale, facile lasciare, difficile tornare ed essere.
Errare per sempre, fino a quando Dio non mi chiamerà a sé, fino a quando questo mio cuore non avrà pace, fino a quando la mia passione non si sarà calmata, fino a quando il sangue avrà smesso di bollire nelle vene.

Madrid

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Seduta sul bordo di questo davanzale.
La Gran Vía sotto di me. Le strade che scorrono, le persone trasportate dalla loro stessa incoscienza.
Un moto di tristezza attraversa il mio cuore, ne ferma il battito e fa sì che la mente ricordi, che registri questo attimo e lo renda eterno.
Il piede che segue il ritmo della musica che scorre nelle mie vene.
Una puttana all’angolo della via, un volto, i capelli biondi, le labbra carnose pronte ad accogliere lingue sconosciute e pecaminosi desideri non ancora soddisfatti, i capezzoli turgidi che il bianco vestito lascia intravedere.
Un moto di insoddisfazione ricorda al mio cuore che ancora deve vivere, che ancora deve sperimentare e ancora deve sanguinare.
Gli occhi che seguono fiduciosamente le macchine che si muovono, che colgono la fretta di questo o quello, che immagazinano i colori e ne proiettano dolci fiori.
Le luci che illuminano il mio volto stanco, che soffocano le rughe, che raccontano un Natale che ancora deve venire.
Le sirene di un’ambulanza echeggiano lontane. Da qualche parte una vita si trova appesa ad un sottile filo che forse verrà spezzato dalle forbici del destino, o che forse verrà irrobustito dalle mani della medicina.
Passano gli anni, il tempo scorre e i secondi son scanditi dai passanti distratti che sotto di me succedono.
Son seduta sul balcone e sotto, proprio sotto, la vita continua a muoversi. Ho preso una pausa dalle pressioni e dal continuo lottare.
Tutto succede e io inerme, io inerme osservo questo tutto.
Ne sono estranea, non ne partecipo più; non più almeno.

17 dicembre

Non sono sicura di come andrà.
Non sono nemmeno sicura della mia preparazione.
Succedono tante cose e tante cose van tenute in piedi.
Diventa frustrante, giocoliere per dovere. Se cadesse qualcosa, si romperebbe tutto l’equilibrio creato fino a quel momento.
In Cina, i rapporti tra privati son principalmente regolati attraverso la conciliazione.
Immagino sia una cosa bella: non ci si preoccupa di far valere un proprio diritto, ma si cerca di contemperare i propri interessi con quelli altrui.
Ti penso spesso. Non so nemmeno più perché.
Quando ti penso mi chiedo se son riuscita a raggiungere gli obiettivi che avevo allora. Non so se saprei rispondermi.
Non so se mai sarò in grado di rispondere a tale quesito.
Quando un obiettivo conquistato si trasforma subito in un altro, più nuovo e più difficile, si può dire di aver raggiunto ciò che si desiderava o semplicemente si son modificate le priorità e i desideri lungo l’impervio cammino e ci si trova a riniziare da zero?
Riniziare.
Ormai ho perso il conto delle volte che ho ripreso in mano la mia vita, stravolgendola. Delle volte che mi son impadronita del mio destino e delle mie azioni, che ho edificato una persona migliore, con calce e valori e interessi.
Mi guardo allo specchio, a volte, e non vedo più quella bambina, spensierata ma appassionata.
È un’immagine sfocata, in continua evoluzione, che non rimane ferma ma si plasma a seconda delle necessità del momento. È una maschera, ampia discrezionalità di pensieri.
E la notte, quando la coperta mi avvolge e cadono anche i brutti ricordi, quella maschera viene lavata via dalle lacrime, salate come il mare.
Che bisogno c’è, di non mostrarsi. Che bisogno c’è, di erigere muri a difesa.
Quando ciò che custodiamo è troppo prezioso, nato dal piombo e dal fuoco, forgiato dal dolore, modellato con le unghie affilate della speranza. Caparbi pensieri e giuste soluzioni.
Si nascondono le parti migliori, le lotte, i campi desolati e straziati dalle mille battaglie. Si nasconde la solitudine dietro un velo di felicità e superficialità.
Si diventa ciò che la necessità del momento comanda, ci si adatta a ciò che ci circonda. Riservando quella specialità per noi stessi. Custodendola gelosamente.

Ma tu guardami

Vorrei raccontarti cosa non va.
Scriverti, vederti, e raccontarti.
Forse non capiresti, oppure mi saresti vicino, anche in questo.
Comprenderesti il mio perenne dolore, il fardello che mi porto addosso.
Forse lo faresti tuo, mi aiuteresti nell’impresa.
Ma questa non sarei io.
Non ti chiederei mai aiuto; sbagliando.
Non ne sono capace, e lentamente mi lascerò cadere di fronte ai tuoi occhi dorati: ricomporrò i cocci di questo vaso cinese in silenzio, senza disturbare.
Senza batter ciglio, sconfiggerò il mare e le tempeste che dentro di me si scatenano.
Ma tu guardami.

Chi erano?

Si guardarono a lungo negli occhi: lasciarono che i loro sguardi si assaporassero.
I lati della bocca formavano un leggero sorriso, troppo timido per esplodere in una soave risata.
Le mani si cercavano e si sfioravano. I polpastrelli esploravano nuovi percorsi, nuovi lembi di pelle ancora nascosti.
Rimanevano spesso così, in silenzio.
Forse desiderosi di provare, forse consapevoli di non esserne capaci: chi erano?

Innocenza raccontata

Era una bambina forte, con un profondo desiderio di esser accettata.
I suoi occhi frugavano quelli di estranei frettolosi in cerca di approvazione, di una scintilla, di un qualcosa che potesse farla sentire a casa.
Aveva bisogno dell’amore; era innamorata dell’amore e leggeva l’amore fra le righe dei libri che consumava avidamente, libri che colmavano il suo desiderio di evasione.
Così incompleta, così insoddisfatta. Così alla ricerca di qualcosa, così calda e appassionata.
L’innocente fanciullezza espressa da quei sorrisi grandi e meravigliosi, la speranza che riluceva sui suoi biondi capelli.
Il sole che illuminava le guance rosee e le colorava, il freddo che le pungeva maliziosamente.
Il viso bianco, puro, di chi ha forse sofferto e di chi non ha forse mai amato.
Di chi ha sperato e mai ricevuto.
Le vene blu, il sangue rosso, di chi ha sempre messo il cuore nei piccoli gesti, di chi ha porto tante mani al prossimo e di chi ha incrociato le proprie dita per aiutarsi.
Il naso aquilino sempre rivolto al cielo, teso verso le nuvole di zucchero filato che macchiavano quell’azzurro immenso e perfetto. Il desiderio di esser come loro, di far parte di qualcosa di grande e di poter lasciare un segno indelebile.
Le mani piccole e fredde, pronte ad accogliere e a consolare le proprie sconfitte, pronte a risollevare un corpo così giovane eppur così stanco e pesante.
La mente aperta verso nuovi orizzonti e gli occhi nocciola puntati verso quel tramonto, sorpresi ed innamorati di quel rosso vivace che tingeva il mare di calore.